Care amiche e cari amici, indecisi su che libro scegliere per l’estate?
ecco di seguito, i titoli da noi consigliati, con una breve descrizione!
Il Duomo di Milano come nessuno lo ha mai raccontato. Milano, 1385. Forza, conquista, potere. Sono queste le parole che guidano i pensieri di Gian Galeazzo Visconti, da poco divenuto signore della città dopo aver deposto e fatto arrestare lo zio Bernabò. Quando l'arcivescovo di Milano gli prospetta l'idea di una grande cattedrale che sostituisca la chiesa di Santa Maria Maggiore, il conte di Virtù, da sempre devoto alla Vergine, approva il progetto anche se la decisione non ha nulla di religioso. Diventerà potente, espanderà i confini del ducato e la cattedrale dovrà essere il simbolo della sua grandezza. Per costruirla, si circonda dei migliori architetti e scultori, i maestri campionesi, tra i pochi in grado di portare a termine un progetto tanto ambizioso. Nelle schiere di ingegneri e artigiani, operai e artisti, vi sono Alberto e Pietro, gemelli separati alla nascita. Falegname l'uno, scultore l'altro, uniti da un solo ineludibile destino, quello di contribuire a una delle più grandi imprese che la nostra storia ricordi: la costruzione del Duomo di Milano. Tra segreti di corte, passioni e giochi di potere, un romanzo che celebra la grandezza di uno dei simboli della nostra civiltà attraverso le vite dei potenti che lo vollero fortemente e di coloro che, con l'ingegno e la fatica, lo fecero sorgere dal nulla. Queste pagine celebrano la loro memoria.
«Un uomo in mutande?» chiese il maresciallo Ernesto Maccadò. Nessuna traccia di sorriso. Anzi, un'espressione che valeva un punto interrogativo.
Il Misfatti l'aveva messa sullo scherzo, ma quello, niente, aveva preteso i dettagli invece di riderci su.
«Si spieghi meglio, appuntato», disse il Maccadò.
«Dicevo tanto per...» annaspò il Misfatti.
«L'ascolto comunque», insisté il maresciallo.
«Vitali appartiene a quella categoria di pochi eletti capaci, con la propria penna, di far ritmare l'elettrocardiogramma di ogni lettore» – Il Messaggero
12 aprile 1929. È la volta buona. Capita di rado, ma quando è il momento l'appuntato Misfatti si fa trovare sempre pronto. Dipende dall'uzzolo della moglie, che stasera va per il verso giusto. E così, nel piatto del carabiniere cala una porzione abbondante di frittata di cipolle. Poi un'altra, e una fetta ancora, e della frittata resta solo l'odore. Che non è buona cosa, soprattutto perché ha impregnato la divisa, e chi ci va adesso a fare rapporto al maresciallo Ernesto Maccadò diffondendo folate di soffritto? Per dirgli cosa poi?, che durante la notte appena trascorsa è stato trovato il povero Salvatore Chitantolo mentre vagava per le contrade mezzo sanguinante e intontito, dicendo di aver visto un uomo in mutande correre via per di là? Sì, vabbe', un'altra delle sue fantasie. In ogni caso la divisa ha bisogno di una ripulita. Ma proprio energica. Come quella di cui avrebbero bisogno certe malelingue, che non perderebbero l'occasione di infierire sullo sfortunato Salvatore ventilando l'idea di rinchiuderlo in un manicomio. Anche il Comune, guarda un po', sta progettando una grande operazione di pulizia, una «redenzione igienica» che doti Bellano delle stesse infrastrutture che vantano già altri paesi del lago, più progrediti nella civiltà e nel decoro. Ma, un momento, che ci faceva esattamente un uomo in mutande, in piena notte, per le vie del paese? E perché correva?
In «Un uomo in mutande» il maresciallo Ernesto Maccadò si trova per le mani un caso che forse non lo è, o forse sì. Andrea Vitali gioca con il suo presonaggio preferito stuzzicando la sua curiosità, e mettendo alla prova le sue doti di buon senso. Una specie di trappola dalla quale chissà se il maresciallo saprà sfuggire. Unica certezza: il godimento del lettore.
Dopo l'eccezionale vicenda editoriale del suo libro di esordio (premio Volponi, premio Severino Cesari opera prima, premio John Fante opera prima) Daniele Mencarelli torna con una intensa storia di sofferenza e speranza, interrogativi brucianti e luminosa scoperta.
"Salvezza. Per me. Per mia madre all'altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza"
«Quando un poeta si mette a scrivere un romanzo e ha una storia fortissima da raccontare il risultato è un piccolo capolavoro» - Daria Bignardi
Ha vent'anni Daniele quando, in seguito a una violenta esplosione di rabbia, viene sottoposto a un TSO: trattamento sanitario obbligatorio. È il giugno del 1994, un'estate di Mondiali. Al suo fianco, i compagni di stanza del reparto psichiatria che passeranno con lui la settimana di internamento coatto: cinque uomini ai margini del mondo. Personaggi inquietanti e teneri, sconclusionati eppure saggi, travolti dalla vita esattamente come lui. Come lui incapaci di non soffrire, e di non amare a dismisura. Dagli occhi senza pace di Madonnina alla foto in bianco e nero della madre di Giorgio, dalla gioia feroce di Gianluca all'uccellino resuscitato di Mario. Sino al nulla spinto a forza dentro Alessandro. Accomunati dal ricovero e dal caldo asfissiante, interrogati da medici indifferenti, maneggiati da infermieri spaventati, Daniele e gli altri sentono nascere giorno dopo giorno un senso di fratellanza e un bisogno di sostegno reciproco mai provati. Nei precipizi della follia brilla un'umanità creaturale, a cui Mencarelli sa dare voce con una delicatezza e una potenza uniche.
Proposto per il Premio Strega 2020 da Maria Pia Ammirati: «Daniele Mencarelli ha cominciato come poeta, quando nel 2018 ha scritto il suo primo romanzo, "La casa degli sguardi", ha portato nella narrativa la densità e la plasticità della parola poetica. Una parola che diventa discorso umano, sorretto dalle vibrazioni di una scrittura potente e creaturale. Con "Tutto chiede salvezza" Mencarelli conferma di essere uno scrittore unico e maturo. Partendo da un'esperienza personale – i sette giorni di Trattamento sanitario obbligatorio a cui è stato sottoposto quando aveva vent'anni – scandaglia il buio della malattia mentale alla conquista di un'umanità profonda e autentica, la sua e quella dei suoi compagni. La cura profonda non può che essere affidata alla parola, unico e salvifico "pharmakon".»
Un fine settimana di dicembre, il Palace de Verbier, lussuoso hotel sulle Alpi svizzere, ospita l'annuale festa di una importante banca d'affari di Ginevra, che si appresta a nominare il nuovo presidente. La notte della elezione, tuttavia, un omicidio nella stanza 622 scuote il Palace de Verbier, la banca e l'intero mondo finanziario svizzero. L'inchiesta della polizia non riesce a individuare il colpevole, molti avrebbero avuto interesse a commettere l'omicidio ma ognuno sembra avere un alibi; e al Palace de Verbier ci si affretta a cancellare la memoria del delitto per riprendere il prima possibile la comoda normalità. Quindici anni dopo, un ignaro scrittore sceglie lo stesso hotel per trascorrere qualche giorno di pace, ma non può fare a meno di farsi catturare dal fascino di quel caso irrisolto, e da una donna avvenente e curiosa, anche lei sola nello stesso hotel, che lo spinge a indagare su cosa sia veramente successo, e perché, nella stanza 622 del Palace de Verbier.
«Ilaria Tuti costruisce un romanzo teso in cui nessuna parola è superflua, nessuna descrizione "decorativa": le piaghe sulle spalle martoriate delle ragazze, gli occhi "bui" dei soldati, un pasto misero consumato in silenzio, le lacrime trattenute e le poche risate sono le (bellissime) tessere di un mosaico epico e scarno insieme.» - Corriere della Sera
«Quelli che riecheggiano lassù, fra le cime, non sono tuoni. Il fragore delle bombe austriache scuote anche chi è rimasto nei villaggi, mille metri più in basso. Restiamo soltanto noi donne, ed è a noi che il comando militare italiano chiede aiuto: alle nostre schiene, alle nostre gambe, alla nostra conoscenza di quelle vette e dei segreti per risalirle. Dobbiamo andare, altrimenti quei poveri ragazzi moriranno anche di fame. Questa guerra mi ha tolto tutto, lasciandomi solo la paura. Mi ha tolto il tempo di prendermi cura di mio padre malato, il tempo di leggere i libri che riempiono la mia casa. Mi ha tolto il futuro, soffocandomi in un presente di povertà e terrore. Ma lassù hanno bisogno di me, di noi, e noi rispondiamo alla chiamata. Alcune sono ancora bambine, altre già anziane, ma insieme, ogni mattina, corriamo ai magazzini militari a valle. Riempiamo le nostre gerle fino a farle traboccare di viveri, medicinali, munizioni, e ci avviamo lungo gli antichi sentieri della fienagione. Risaliamo per ore, nella neve che arriva fino alle ginocchia, per raggiungere il fronte. Il nemico, con i suoi cecchini – diavoli bianchi, li chiamano – ci tiene sotto tiro. Ma noi cantiamo e preghiamo, mentre ci arrampichiamo con gli scarpetz ai piedi. Ci aggrappiamo agli speroni con tutte le nostre forze, proprio come fanno le stelle alpine, i «fiori di roccia». Ho visto il coraggio di un capitano costretto a prendere le decisioni più difficili. Ho conosciuto l’eroismo di un medico che, senza sosta, fa quel che può per salvare vite. I soldati ci hanno dato un nome, come se fossimo un vero corpo militare: siamo Portatrici, ma ciò che trasportiamo non è soltanto vita. Dall’inferno del fronte alpino noi scendiamo con le gerle svuotate e le mani strette alle barelle che ospitano i feriti da curare, o i morti che noi stesse dovremo seppellire. Ma oggi ho incontrato il nemico. Per la prima volta, ho visto la guerra attraverso gli occhi di un diavolo bianco. E ora so che niente può più essere come prima.»
Con la lingua precisa e affilata del poeta, Daniele Mencarelli ci offre con grazia cruda il racconto coraggioso del rifugio cercato nell'alcol, della spirale di solitudine, prostrazione e vergogna di quegli anni bui, e della progressiva liberazione dalla sofferenza fino alla straordinaria rinascita.
"Si parli, semmai, di fragilità, di esseri nati con la pelle più sottile, un bassissimo numero di anticorpi a ogni bene e male del mondo, dal dolore alla tenerezza, malinconia e amore compresi. Persone che le inchiodi con poco, basta un fiore per bucargli la pelle."
Daniele è un giovane poeta oppresso da un affanno sconosciuto, "una malattia invisibile all'altezza del cuore, o del cervello". Si rifiuta di obbedire automaticamente ai riti cui sembra sottostare l'umanità: trovare un lavoro, farsi una famiglia... la sua vita è attratta piuttosto dal gorgo del vuoto, e da quattro anni è in caduta "precisa come un tuffo da olimpionico". Non ha più nemmeno la forza di scrivere, e la sua esistenza sembra priva di uno scopo. È per i suoi genitori che Daniele prova a chiedere aiuto, deve riuscire a sopravvivere, lo farà attraverso il lavoro. Il 3 marzo del 1999 firma un contratto con una cooperativa legata all'ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. In questa "casa" speciale, abitata dai bambini segnati dalla malattia, sono molti gli sguardi che incontra e che via via lo spingeranno a porsi una domanda scomoda: perché, se la sofferenza pare essere l'unica legge che governa il mondo, vale comunque la pena di vivere e provare a costruire qualcosa? Le risposte arriveranno, al di là di qualsiasi retorica e con deflagrante potenza, dall'esperienza quotidiana di fatica e solidarietà tra compagni di lavoro, in un luogo come il Bambino Gesù, in cui l'essenza della vita si mostra in tutta la sua brutalità e negli squarci di inattesa bellezza. Qui Daniele sentirà dentro di sé un invito sempre più imperioso a non chiudere gli occhi, e lo accoglierà come un dono.